Guido Falgares, “Le carni suine in Sicilia: percorsi di Tradizione e Innovazione” 14-11-2017

14 Novembre 2017 by

Il Suino Nero di Sicilia: storia, tradizioni e legami con l’ambiente geografico

L’origine  

“Uomini e suini hanno vissuto assieme almeno negli ultimi diecimila anni”.

Il suino domestico (Sus scrofa domesticus) si è evoluto circa 9.000 anni fa da una particolare sub-specie del cinghiale selvatico euro-asiatico (Sus scrofa Linnaeus). (1). Dati i tratti comuni del maiale con il cinghiale, è plausibile pensarlo.

Laurent A. F. Frantz dell’Università di Wageningen ha confrontato il genoma di oltre 600 esemplari di maiali con quello di differenti gruppi (sottospecie) di cinghiali selvatici europei e asiatici e ha mostrato:

  • che i maiali sono stati domesticati indipendentemente in Anatolia, nell’attuale Turchia, e nella valle del Mekong, nel Sudest asiatico, circa 9000 fa, come risulta anche dalle testimonianze archeologiche.
  • che oggi il 35% del genoma dei suini europei è di origine
  • che le analisi di antico DNA mitocondriale hanno permesso di stabilire che i primi maiali domestici sono arrivati in Europa al seguito dei primi pastori provenienti dal Vicino Oriente (la Mezzaluna Fertile) circa 7500 anni fa e che questo primo gruppo di animali aveva effettivamente un’unica origine asiatica.
  • che nel corso dei millenni i maiali, durante tutta la loro domesticazione, hanno continuato a incrociarsi con diversi differenti gruppi di cinghiali selvatici, che hanno apportato ai suini domestici svariati flussi genici,  alcuni provenienti anche da popolazioni ormai estinte.
  • che, qualche migliaio di anni dopo la loro introduzione, i maiali domestici europei avevano perso la firma genetica mitocondriale dei loro antenati anatolici per acquisire quelle dei cinghiali tipici delle diverse regioni in cui si trovavano. (2)

Il ritrovamento più antico è del 1964 a Cemi, alle pendici della catena del Taurus nella Turchia sud-orientale risale all’8.000 a.C. (3)

Secondo la Teoria delle Oasi, quest’animale “opportunista” decise di stabilirsi negli insediamenti umani dove disponeva di resti abbondanti e della protezione dai grandi carnivori. (4)

Il ruolo del maiale ha avuto nei secoli un’evoluzione molto netta. Da un lato ha costituito un profondo spartiacque tra la cultura greco-romana e quella ebraico-cristiana (5):

  • infatti, mentre per i Greci e poi successivamente per i Romani l’associazione fra maiale e sessualità non aveva alcun carattere negativo, [“un instancabile copulatore”, Aristotele nella sua Historia animalium]
    • nella letteratura ebraica, il maiale simbolo dei più bassi istinti era escluso dall’alimentazione e qualificato “impuro”.
    • il suino, quindi, una vera e propria icona, una metafora dell’uomo stesso e delle sue qualità fisiche e morali, nel bene e nel male. (6)
    • dall’altro lato il maiale, “una delle glorie dell’addomesticamento”, era

riuscito a conciliare “il mondo agricolo dei popoli sedentari e il mondo pastorale dei nomadi”. “dopo la cacciata dall’Eden, il cattivo Caino fa l’agricoltore e il buon Abele fa il pastore”. (7)

Quali i fattori di questo legame fra umani e i suini?

Alcuni ricorrenti:

  • i suini sono prolifici e crescono rapidamente di peso
  • sono onnivori e sono una preziosa fabbrica di proteine, non sottraendo risorse ad un’umanità per la quale, da “antichi millenni fino all’Europa di Ancien Régime, fame e carestia sono stati, una struttura della vita quotidiana” (8)
  • sono efficienti convertitori in carne dell’energia alimentare ricavata da vegetali a basso contenuto di cellulosa.
  • per la loro capacità di “riciclare gli anglosassoni li hanno definiti “garbage pig”, “maiali da spazzatura”. (9)

La storia offre tante utilizzazioni, alcune disgustose:

  • in Cina e in Corea i maiali allevati in casa, venivano alimentati, per la gioia del “locale assessore ai rifiuti”, con feci umane e una certa quantità di spazzatura a mo’ di pecorino grattugiato. “È arduo pensare a un prosciutto di suino nero dei Nebrodi fatto con queste carni”. (10)
  • in Europa gli ordini conventuali, gli ospizi, gli ospedali utilizzavano i maiali come operatori ecologici.
  • le città usavano branchi appositi di suini. È questo non ai tempi dei Longobardi, bensì a “Napoli e a New York City fino al XIX secolo inoltrato”. Martin Scorsese lo mostra nel film “Gangs of New York” (quartiere Five Points, 1846). (11)

E poi altri fattori strutturali:

  • il maiale per i ceti poveri, forzatamente vegetariani, rappresentava una  preziosa fonte di carne non solo gustosa, ma anche conservabile.
  • in Occidente, per tutto il Medioevo, il maiale è stato il maggiore  produttore di carne.

“Sicché, in una prospettiva umanocentrica, al tanto disprezzato porco, più che al cane, bisognerebbe conferire la medaglia di “migliore amico dell’uomo”,  posto che l’interessato possa considerare amico il suo “carnefice”. (12)

Greci e romani, estimatori delle gustose carni e dei prosciutti hanno scritto tanto sul maiale, anche ricette di cucina:

  • Omero (Odissea) racconta che Eumeo, il porcaro di Ulisse, doveva accudire gli animali che venivano chiusi in un recinto di notte e lasciati liberi di giorno.
  • Plinio il Vecchio (Naturalis historia) celebra i pregi della sua carne: “nessun animale presenta tante utilizzazioni per la cucina, la sua carne ha cinquanta sapori”.
  • T. Varrone (Rerum rusticarum libri) afferma, “la natura ci ha donato il maiale per i banchetti”.
  • Apicio, nel De re coquinaria: “le ricette di maiale sono nettamente prevalenti nell’ambito delle carni”.
  • Polibio, storico greco, che visitò la Gallia Cisalpina intorno al 150 a.C. nelle “Storie” racconta dell’enorme produzione suinicola della regione, dell’enorme ricchezza di boschi e di bestie che vi pasturavano.

Fra VI e IX secolo (Alto Medioevo), il paesaggio era profondamente stravolto:

i tre flagelli” (guerra, la carestia, malattie infettive).

  • La crisi economica e demografica, iniziata nel periodo tardo-imperiale, ha riportato l’agricoltura ad una condizione preagricola”. L’agricoltura non era più l’attività economica prevalente, ma veniva affiancata da un forte avanzamento delle aree incolte (selva, pascolo naturale, brughiera, palude). Aree che si erano allargate ovunque, conferendo al paesaggio “un’impronta selvatica”. (13)
  • Le città erano fortemente decadute, i villaggi erano piccoli, la povertà molto diffusa.
  • Il commercio era molto limitato e quasi tutta la produzione era destinata all’autoconsumo.
  • L’attività silvopastorale (le aree incolte) costituiva una riserva preziosa di cibo e di materie prime: l’allevamento allo stato brado del bestiame, soprattutto maiali e pecore; la caccia, la pesca e la raccolta di bacche, frutti: soprattutto castagne.
  • La crescita degli spazi incolti e la diminuzione della popolazione mise a disposizioni quantità enormi di maiali e di altra carne proveniente dalla caccia e dalla pesca: in un contesto apparentemente negativo, “si stava meglio quando si stava peggio”.
  • Il maiale diventò un “pilastro della sussistenza dei poveri” (tanto che la legge ne vietava il pignoramento) e “delle rendite dei ceti superiori” (nei testamenti e nei patti agrari pervenuti era rara l’assenza dei maiali).
  • La preminenza, fra le attività economiche del tempo, del pascolo brado e soprattutto del pascolo dei suini è attestata da ogni sorta di documenti.
  • Le aree incolte erano valutate in termini di produttività. I boschi in base al numero di maiali che potevano ingrassare: “silva ad ingrassandum porcos…” (e qui si specificava il numero). (14)
  • Apposite leggi regolavano il carico di suini per ettaro di bosco (ca. 1 animale/ha) e l’uso comunitario (“l’ager compascuus”) della pastura nei querceti. Gli stessi contratti agrari prevedevano che il contadino entrasse nel fondo.
  • Il vescovo di Modena, per la concessione di due aree boschive per il pascolo dei maiali, raccomandava che,
  • le querce più grandi siano conservate bene, migliorate e difese
  • le querce più piccole siano fatte crescere”. (15)
  • Nell’inventario del monastero di S. Giulia a Brescia si diceva ad esempio:
  • “Il bosco di Alfiano può ingrassare 700 porci”,
  • Il monastero di S. Giulia (Brescia) nel X secolo riceveva come “decima porcorum” dagli abitanti della grande selva di pianura di Migliarina (Carpi) ben 400 maiali. Il numero totale di capi allevati doveva raggiungere i 4000 soggetti. Naturalmente gran parte di questa carne andava conservata mediante affumicatura e salagione. (16)
  • L’allevamento di questi animali tracciò una linea costante in stretto equilibrio con l’ambiente, con il bosco.
  • Nell’Alto Medioevo quello del porcaro era uno dei mestieri più stimati dall’opinione pubblica. L’Editto di Rotari, (643 d.C.) puniva chi avesse ucciso un magister porcarius al pagamento di una pena pecuniaria (il guidrigildo), che era di due volte e mezza quella per l’uccisione di un servo massaro, di un capraio, pecoraio, bovaro o di un contadino. [Il guidrigildo fu introdotto per limitare il ricorso alla faida]. (17)
  • Nei documenti dell’epoca, non si mancava di auspicare “una buona crescita delle ghiande sugli alberi”, “una buona disponibilità di pascoli per gli animali domestici e selvatici”.
  • Gli stessi documenti, accanto alle carestie di cereali, ricordano le carestie forestali. Da un cronista dell’epoca: “nel 591 una grande siccità seccò i pascoli e ogni erba”. “Nel folto dei boschi venne trovata una gran quantità di animali morti. Le ghiande che erano cresciute sulle querce non giunsero neppure a maturare”. Da un altro: nell’874 “una neve eccezionale cadde dai primi di novembre alla fine di dicembre,gli uomini furono impediti di entrare nei boschi”. (18)
  • L’ampia attività silvo-pastorale, il calo della popolazione, l’uso “comunitario della pastura nei querceti” e degli spazi incolti, ebbe un’importanza decisiva nel tipo di alimentazione. Cereali, legumi, ortaggi vennero affiancati dalla carne e dal pesce e in primo luogo dalla carne di maiale.
  • La differenza fra alimentazione contadina e alimentazione dei signori era soprattutto quantitativa: “tutti mangiavano per lo più le stesse cose, ma c’era chi mangiava di più e chi mangiava molto di meno”.

Fra il X e il XIII, (Basso Medioevo), il paesaggio cambiò nuovamente:

  • l’agricoltura consentì in circa tre secoli di moltiplicare di tre-quattro volte sia la produzione di alimenti, sia la popolazione europea. (19)
  • il centro della vita economica si spostò dalle corti feudali ai mercati della città.
  • il commercio e l’artigianato ripresero vigore.
  • si produceva non solo per consumare, ma anche per vendere e ottenere un profitto.
  • le colture si estendevano, ma le aree incolte si riducevano e venivano privatizzate, con conseguente esclusione dei ceti rurali dalle attività silvo-pastorali.
  • l’alimentazione per i ceti inferiori si basava sempre più sui cereali, mentre il consumo di carne costituiva un “segno di distinzione sociale”. “La differenza di dieta fra contadini e signori, che un tempo era stata d’ordine quantitativo, ora divenne anche qualitativa”.
  • diminuirono i consumi di carne.
  • la parola “carestia”, adesso, s’identificava con la “penuria di cereali”. La “penuria di pane” – era diventata una vera angoscia, e ci si rendeva conto che “senza agricoltura era difficile sopravvivere”.
  • nel XIV secolo la “Peste nera” riportò tutto all’indietro.

 Nei secoli successivi (Età moderna), il rapporto suino-bosco ebbe un

 andamento altalenante:

[Età moderna: tra la scoperta dell’America, 1492, e gli ultimi decenni del Settecento, due rivoluzioni, quella americana (1775-1783) e quella francese (1789-1799), annunciano l’Età contemporanea. Come nel Medioevo, fame, guerre, epidemie continuano a esserci anche nell’Età moderna. La popolazione aumenta, ma lentamente e in modo irregolare, con forti cali in coincidenza di conflitti, pestilenze, carestie. Solo dalla metà del Settecento – e ancor più nel secolo successivo – la crescita demografica si fa rapida e decisa.]

     Nella seconda metà del ‘500 e nel ‘600

  • diminuirono progressivamente i consumi di carne,
  • l’agricoltura era ancora l’attività dominante, ma quasi dappertutto era

arretrata e poco produttiva:

  • il terreno rendeva poco,
  • non si conoscevano altri concimi oltre al letame,
  • era difficile allevare bestiame perché, per nutrirlo, bisogna coltivare foraggi che toglievano terreno alle piante destinate all’alimentazione umana.
  • s’incrementavano i consumi di pesce conservato, il baccalà divenne il surrogato della carne per le classi popolari

[La rivoluzione agricola. Il problema dell’agricoltura venne risolto in Inghilterra, col diffondersi delle recinzioni e della rotazione quadriennale ed altro……, dando l’avvio ad una vera e propria rivoluzione in agricoltura (XVI-XVIII)]

Nel ‘700, la rivoluzione agricola e il clima illuministico (Jean-Jacques Rousseau,la carne rende l’uomo aggressivo e violento”) diedero il colpo di grazia al consumo della carne rafforzando la posizione leader detenuta dai cereali nella dieta europea e ciò fino alla metà dell’800.

“Per concludere, alla fine del ‘700, non è più soltanto l’esperienza a guidare l’attività del contadino: infatti, sulla spinta delle istanze illuministiche, cominciano a diffondersi i testi di agronomia (nel 1753 sorge a Firenze l’Accademia dei Georgofili). L’agricoltura diventa una scienza.”

A partire dalla seconda metà del XIX secolo, per un insieme di cause legate alla rivoluzione industriale ed all’innovazione tecnologica, l’Europa assisterà:

[La rivoluzione industriale: “la società da sistema agricolo-artigianale divenne un sistema industriale, il tutto favorito da una forte componente di innovazione tecnologica, da fenomeni di crescita, sviluppo economico e profonde modificazioni socio-culturali e politiche. L’Inghilterra fu la prima ad avere un’agricoltura di mercato che, unita all’innovazione tecnologica, eliminò molta manodopera dalle campagne, facendola rifluire verso la città, dove trovò occupazione nella nascente industria”].

  • ad una inversione di tendenza che porterà al ridimensionamento del consumo dei cereali, ad una enorme disponibilità di cereali con  conseguente brusca caduta dei prezzi.
  • crebbero i consumi di carne; era più conveniente convertire gli alimenti  vegetali in carne (dal costo più elevato); ed allevare non più per sé ma per il mercato.
  • erano maturi i tempi della trasformazione industriale della lavorazione delle carni.
  • scomparve l’importanza dell’equilibrio dell’allevamento con l’ambiente,  passando:
    • dall’allevamento estensivo allo stato brado nei boschi
    • alla chiusura intra muros dei suini nelle città, confinando così gli animali in recinti, cortili o porcili veri e propri.
    • per giungere in età contemporanea all’allevamento stabulare (intensivo) al servizio dell’industria di lavorazione delle carni suine e dell’approvvigionamento dei mercati.
    • cambia anche l’alimentazione passando all’esclusivo impiego di cascami di cereali e sottoprodotti dell’industria lattiero-casearia.

 La qualità delle produzioni non era più lo scopo di tale allevamento, bensì quello della rapida eliminazione degli “scarti” aziendali”. In alcuni casi i suini venivano nutriti principalmente con scarti di lavorazione provenienti da birrerie, distillerie, mulini e forni, fino ad arrivare allo sfruttamento delle parti non digerite nelle feci di buoi alimentati ad orzo non germinato” (20)

Tali pratiche provocarono negli animali una “perdita di vitalità e di resistenza”, portando alla nascita di “ogni sorta di difficoltà (…) e principalmente le malattie” e relegando il suino ad essere considerato “un animale delicato e perdita di reputazione” (21).

Alla fine del Cinquecento e fino all’ottocento il maiale, con le “antologie di letteratura suinofila”, ricevette la sua emancipazione morale oltre che fisica, il suo riscatto culturale.

  • L’eccellenza et il trionfo del porco, scritto nel 1594 da Salustio Miranda, autore anche di Bertoldo e Bertoldino.
  • Nel secolo successivo, Vincenzo Tanara in «L’economia del cittadino in villa» riportava la trascrizione di una filastrocca, “Il testamento del porco”.
  • Nel 1761, l’abate Ferrari in “Gli elogi del porco” si sofferma sulla ricchezza di spunti gastronomici derivati dalla carne suina.
  • Fine 800 e primo 900, le antologie di letteratura suinofila s’interruppero e la riflessione sul maiale si canalizzò in due vie (i due manuali Hoepli sul maiale che segnarono il trapasso dalla civiltà contadina alla civiltà industriale).  Quindi:
    • da una parte, i trattati di cucina, i ricettar
    • e dall’altra parte, i manuali di zoologia, di zootecnia, di veterinaria e di salumeria pratica.

Nell’iconografia otto e novecentesca il maiale, “ormai svincolato dalle sue radici antropologiche, che lo vedevano connesso ai ritmi della vita contadina o ad esigenze puramente alimentari”, è raffigurato in forma per lo più metaforica e caricaturale, in cartoline augurali o nella stampa satirica (22)

 

Il Suino Nero di Sicilia, “la salvaguardia della biodiversità”.

Le trasformazioni che hanno interessato la zootecnia nell’ultimo cinquantennio hanno inciso profondamente sulla suinicoltura nazionale che, a fronte dell’enorme progresso registrato con l’attività selettiva riguardante alcune razze estere, ha innescato un inesorabile, progressivo e scellerato processo di sostituzione delle vecchie razze locali, (alcune delle quali già scomparse ed altre in via di estinzione), non più competitive rispetto alle razze “migliorate”; purtroppo con grave perdita di prezioso materiale genetico. (23)

L’utilizzazione di popolazioni animali locali, come il Suino Nero di Sicilia, alcune delle quali viventi in condizioni di assoluta libertà: oltre all’indubbio vantaggio in termini di recupero di variabilità genetica e produzioni di qualità, caratterizzati da un elevato valore aggiunto, potrebbe portare ad una valorizzazione dei terreni agricoli (razionale rotazione agraria con coltivazione di cereali o altre colture), potrebbe consentire una più ampia utilizzazione di aree marginali collinari e montane, a tutto beneficio della tutela dell’ambiente, limiterebbe nello specifico l’importazione che grava sulla nostra bilancia   commerciale.

(“zootecnia, sviluppo e difesa dell’ambiente potranno essere sinergici e costituire la condizione per evitare il declino sociale ed ambientale, con interessanti presupposti per la conservazione in situ della biodiversità” (24)

Sei razze suine indigene italiane (Calabrese, Casertana, Cinta senese, Mora Romagnola, Nero di Sicilia, Sarda) sono sopravvissute alle suddette vicissitudini (2001) ed hanno avuto un riconoscimento con la costituzione del Registro Anagrafico.

Di queste, il Suino Nero di Sicilia, noto a seconda del territorio, come suino dei Nebrodi, suino dei Peloritani, suino delle Madonie e tradizionalmente chiamato U Porcu Nivuru, rappresenta un’ottima possibilità di recupero e sviluppo e ciò grazie:

  • alla buona consistenza numerica
  • alla continuità con il passato per le tradizionali forme di allevamento e la tipicità delle produzioni e al legame con il territorio, che gli ha garantito quell’isolamento necessario per conservare integre le proprie peculiarità.

Origini    

  • La presenza del suino nero in Sicilia, rustico, quasi selvatico, è accertata nel VII-VI secolo a.C. a giudicare dai riferimenti archeologici.
  • Questo tipo di allevamento lo troviamo per tutto l’Alto Medioevo ed è solo dopo il 1061, con la conquista normanna della Sicilia e con la presenza delle colonie gallo-italiche, che si ha il passaggio ad un allevamento allo stato brado che, tranne qualche fluttuazione negativa durante la dominazione araba per i noti motivi religiosi, è giunto fino ai nostri giorni con presenze sparse in tutta la Sicilia e specialmente sui monti Nebrodi.

Ma già ai primi del Novecento era rimasto solo il ricordo dei grandi branchi di suini al pascolo e il Suino Nero veniva di solito allevato in gruppi di 10-15 animali.

Nello stesso periodo si era diffuso l’incrocio con altre razze migliorate (bianche). Tale l’incrocio aveva provocato una riduzione numerica del suino nero, ne aveva compromesso l’integrità genetica, e aveva determinato una diffusione di soggetti con pezzature bianche o bianchi.

Un altro fattore che ha determinato la riduzione del suino Nero in Sicilia

  • è stata la graduale, progressiva, scellerata scomparsa/distruzione dei boschi che coprivano buona parte dei rilievi siciliani, cosicché il suo  allevamento si è col tempo ritirato e concentrato nelle aree più interne dove persistevano ancora i boschi di quercia, di cerro e faggio.
  • infine la pressione della caccia sugli esemplari selvatici con carni più pregiate.

Il suino nero in Sicilia è stato espressione, soprattutto in passato, di eterogeneità etnico-genetica con palese polimorfismo, che ha determinato una diversità morfologica più o meno accentuato/a in relazione ad aree e indirizzi di allevamento e, ovviamente, al tipo di produzione programmata”.

Così nelle aree interne e/o più o meno impervie e comunque meno sensibili ai condizionamenti esterni, gli animali hanno conservato, generalmente, i caratteri dell’antico suino, piuttosto vicino al cinghiale. (25).

“Il bosco gli ha garantito quell’isolamento necessario per conservare integre le proprie peculiarità”.

Si tratta di animali rustici, capaci di:

  • crescere in zone povere,
  • riprodursi nei boschi,
  • sopravvivere e resistere alle malattie in condizioni molto difficili.

Il Suino nero in Sicilia con il meticciamento incontrollato e la dispersione genetica rischiava di perdere la propria specificità e quindi patrimonio genetico e biodiversità. Lo Stato italiano, in modo improvvido, ha provveduto nell’ultimo decennio al riconoscimento Ministeriale del Registro Anagrafico del Suino Siciliano (gestito dall’ANAS), definitivamente denominato Suino Nero Siciliano; col risultato di una perdita di caratterizzazione genetica e morfologica di una popolazione che vive all’interno di uno specifico territorio (vedi Doc Sicilia per il vino).

Le nuove tecnologie strumentali della genetica e delle scienze sensoriali, e i nuovi modelli previsionali della qualità, permettono di analizzare le differenze qualitative nutrizionali che caratterizzano i differenti prodotti suinicoli.

Oggi si cerca di porre rimedio, e aggiungo in modo corretto, con le sotto denominazioni: Ecotipo dei Nebrodi, Ecotipo delle Madonie, Ecotipo dell’Etna.

In questi anni, lo sviluppo di allevamenti specializzati, gestiti da intraprendenti ed innovativi imprenditori zootecnici, ha determinato una decisa ripresa qualitativa del sistema di allevamento di questi animali e ne ha migliorato le condizioni di benessere con effetti positivi sulla produzione e sulle qualità nutrizionali ed igienico-sanitarie delle carni.

Le tipologie di allevamento di suino nero dei Nebrodi rilevate, sono:

Suino nero dei Nebrodi allo stato selvatico:

  • suinetti che sfuggono alle scrofe,
  • non identificati
  • e non hanno un proprietario

Allevamento allo stato brado in boschi permanenti

  • hanno un proprietario che li identifica e vengono lasciati,
  • in pascoli boschivi permanenti: (aree di pochi ettari, non recintate e con uso spesso comunitario)
  • in mandrie più o meno numerose (allevamento quasi intensivo)
  • sempre all’aperto
  • senza ricoveri
  • e senza somministrare loro mangimi, procurandosi essi stessi il cibo sui pascoli
  • la cattura di tali suini selvatici richiede vere e proprie battute per costringere i suini in recinti “resistenti” per la marchiatura e l’avvio alla macellazione. In tali casi il costo di gestione è quasi nullo.

Allevamento semibrado in strutture non razionali;

  • hanno un proprietario che li identifica e vengono lasciati in pascoli boschivi di alcuni ettari recintati (allevamento intensivo)
  • gli animali vengono ricoverati in strutture precarie dove ricevono custodia e alimento durante la stagione invernale, mentre nelle altre stagioni sono lasciati all’aperto in completa libertà.

Allevamento familiare: con due tre soggetti per uso personale e l’allevamentoen plein air”, prevede:

  • l’utilizzo di ampie superfici recintate con una robusta rete metallica in grado di isolare e proteggere gli animali;
  • all’interno lotti di terreno, talvolta delimitati da recinzioni elettriche, da destinare:
  • all’allevamento delle scrofe nelle varie fasi di:
  • fecondazione,
  • gestazione,
  • maternità
  • alla separazione degli animali secondo le fasce di età
  • ad una sorta di rotazione all’interno delle superfici recintate:
  • per uno sfruttamento sostenibile del suolo,
  • per risanare gli areali dai parassiti;

L’allevamento “en plein air”, prevede:

  • i terreni leggermente declivi e con buona capacità drenante;
  • l’allevamento è munito di zone di ombreggiatura, di abbeveratoi,  mangiatoie
  • e di una buca con acqua per una corretta termoregolazione.
  • in Sicilia, come ricovero, si utilizza, sia per l’esiguo costo che per il basso
  • impatto ambientale, la tradizionale e storica “zimma” o “pagghiaru”.

L’allevamento “en plein air”, prevede:

  • prevede ricoveri per la maternità con la nidiata:
    • fecondazione-gestazione: capannine in grado di alloggiare

collettivamente le scrofe in gruppi di 5-8

  • parto: capannine individuali
  • svezzamento: ricoveri coibentati, attrezzati di abbeveratoi e mangiatoie per 45/80 animali. all’esterno è previsto un recinto delimitato per la libertà di movimento dei suinetti. Questi stessi ricoveri possono usare per l’ingrasso

L’allevamento “en plein air:

Per garantire agli animali un adeguato apporto alimentare, tale sistema deve   comprendere:

  • grandi superfici boschive di querce, castagni, noccioli in grado di produrre abbondante alimento;
  • come frutti: ghiande, castagne, nocciole, ma anche radici, tuberi,  corteccia ed altri prodotti tipici della macchia mediterranea, che non più  raccolti sono molti appetibili ai suini che li convertono in prodotti pregiati.
  • l’allevamento en plein air risente delle stagioni; quindi sono sempre  necessarie integrazioni alimentari (in pieno inverno e in piena estate):

orzo germinato e favino o mangime schiacciato o pellettato.

  • si nutrono anche di piccoli roditori, vermi e insetti terricoli, non è esclusa la vipera.
  • Il suino non ha contatti con altri animali
  • si riduce l’esposizione al fattore di rischio trasmissione

tubercolosi e altre patologie parassitarie in genere per:

  • ingestione di carcasse o scarti della macellazione di animali infetti.
  • somministrazione di derivati della lavorazione del latte
  • contatto con feci bovine per grufolamento.
  • acqua di abbeverata in comune
  • con la realizzazione di pratiche agricole estensive,
  • con l’utilizzo di pascolo in bosco, [il carico animale/ettaro]:
  1. procura al suino nero dei Nebrodi le migliori condizioni di benessere,
    • grufolare
    • socializzare
    • svolgere ginnastica funzionale
      • eliminazione degli stress
  1. consente di sfruttare risorse altrimenti inutilizzate
  2. permette l’interazione genotipo-ambiente
  3. influenza la qualità della produzione

Su tutti i campioni di suino nero dei Nebrodi prelevati in azienda ed al macello non è mai stata isolata né la Brucella né la Trichinella (26).

L’allevamento en plein air“consente di ottenere prodotti di alto valore economico che hanno una connotazione di “naturalità”, “genuinità” e specificità territoriale”

Territorio

Il “Suino Nero Siciliano” è presente soprattutto nella Sicilia orientale, sui monti Nebrodi, tanto da essere indicato generalmente come Suino Nero dei Nebrodi; ma trova il suo habitat anche sui territori montani delle Madonie, dei Peloritani, dell’Etna e degli Iblei.

Il Parco dei Nebrodi ed il Suino nero dei Nebrodi:

”una naturale ed unica simbiosi di fattori per l’ottenimento di prodotti tipici di eccellenza, ovvero: l’importanza di valorizzare la diversità biologica dei monti Nebrodi”. (27)

L’ambiente: il più adeguato, il più accogliente degli ecosistemi per riprodursi, per perpetuarsi:

  • il clima umido e freddo favorisce una rapida ricostruzione delle foreste,
  • l’alternarsi di laghi, ambienti rocciosi e fitte foreste
  • la peculiarità di una risorsa genetica animale indigena e la sua tutela: il suino nero
  • le tecniche di coltivazione e di allevamento di origine remota e ancora oggi presenti e praticate
  • le millenarie tradizioni etnico-antropologiche.

Lo definiremo il meraviglioso e complesso “sistema zootecnico nebroideo” (28), di cui il suino nero è parte integrante, rappresentandone, fra l’altro, “l’ecotipo più importante per omogeneità e consistenza “(29).

Le zone di allevamento dal punto di vista morfologico sono tre:

  • La prima è il piano mediterraneo che arriva fino ai 600-800 metri,  caratterizzato dalle querce (ghiande) sempre verdi. Quest’area è in parte coltivata con frutteti, agrumeti, uliveti e noccioleti e in parte da macchia  e formazioni boschive.
  • La seconda è il piano supramediterraneo, fino ai 1200 metri, dove domina la quercia decidua, ovvero il cerro (ghiande).
  • La terza è il piano montano-mediterraneo, dai 1200 metri fino ai 1400 metri: qui regna il faggio (faggiole), che forma fittissime foreste.
  • Man mano che si sale le foreste si infittiscono viene a mancare il sottobosco.
  • A completare il quadro, i pascoli che, tranne alcune aree ricche di essenze pabulari appetibili e ad alto valore nutritivo, risultano abbastanza degradati.
  • Interessanti e significativi sono gli endemismi della flora e della fauna.
  • Il clima dei Nebrodi è abbastanza diversificato:
    • dalla costa verso l’interno, la temperatura diventa sempre più bassa man mano che si sale,
    • anche la piovosità risente di questi divari,
    • le abbondanti nevicate, da un lato permettono un giusto grado di umidità, dall’altro possono determinare condizioni di estrema difficoltà, specie per gli animali allo stato brado.

 

Palermo 14 novembre 2017                                             Guido Falgares

 

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