Sul lavoro e l’ozio

20 Gennaio 2012 by

L’età classica della nostra cultura elaborò un’idea di ozio. Un’idea filosofica, più precisamente metafisica. Probabilmente questa idea, frutto della cultura e della vita dei ceti aristocratici all’epoca al potere, rappresenta uno dei più preziosi lasciti che tali ceti hanno trasmesso alla nostra civiltà. Attraverso un ragionamento abbastanza complicato, che qui non importa riassumere, l’ozio venne inteso come un tempo di vita estraneo al lavoro, in grado di rappresentare il tempo eccellente e il fine di tutta la vita. L’uomo vive, si affatica, fa la guerra per poter vivere in ozio, il quale finisce per racchiudere il senso dell’esistenza. Occorre anche precisare che questo ozio non ha niente a che fare col lavoro, il quale è in dialettica col riposo, inteso come intervallo di tempo tra lavoro e lavoro. L’ozio appartiene ad una rappresentazione aristocratica del mondo in cui non il lavoro è assente, perché ai fini delle scelte etiche importanti vengono considerate essenzialmente le attività pubbliche, civili e militari. L’ozio è un tempo libero da queste attività ed a sua volta dedicato ad attività superiori, essenzialmente rotanti attorno alla conoscenza contemplativa (filosofia) ed alla cura del sé (musica, ginnastica, teatro, conversazione). Nell’ozio si perviene alla felicità.
La rivoluzione di civiltà introdotta dal cristianesimo può essere pienamente compresa solo non trascurando la ridescrizione che essa opera dell’ozio; anche la modernità, quindi la rivoluzione industriale ed il lavoro operaio sono un prodotto di tale ridescrizione. La quale si caratterizza per una critica radicale dell’ozio, che da fine della vita e sua eccellenza etica, diviene “il padre di tutti i vizi” (già nella raccolta di proverbi dell’ ecclesistico A. Monosini,Floris Italicae linguae libri novem, 1604). Protestantesimo e puritanesimo aggravano questa visione negativa che nella modernità prevale nettamente, pur non riuscendo a cancellare, sia a livello popolare che tra i ceti colti, una valutazione positiva dell’ozio. Il cristianesimo compie, grosso modo, la seguente operazione: ridescrive la dialettica tra ozio e attività introducendo tra queste ultime anche il lavoro (che non viene più disprezzato), quindi interpreta l’antica libertà dell’ozio dalle attività come libertà-intervallo dal lavoro; poi sostituisce l’attività conoscitivo-speculativa con la preghiera, la fede e l’acquisizione della verità rivelata; infine sostituisce il fine della felicità mondana dell’ozio antico con il fine ultramondano della vita eterna beata. Tutta l’operazione presuppone, sia un giudizio negativo dell’ozio (“L’ozio è nemico dell’anima”, Regola di San Benedetto), sia una rivalutazione e un giudizioso positivo, ancorché di basso profilo del lavoro perché su tutto deve prevalere il valore della preghiera-speculazione. Le attività lavorative devono essere svolte perché necessarie e indispensabili, ma in esse la persona non rinviene l’eccellenza della sua realizzazione, che accade nella nuova versione dell’ozio, la preghiera. Vi rinviene piuttosto l’abitudine all’accettazione paziente della pena e dell’umiliazione della subordinazione che predispongono alla salvezza eterna. A sua volta l’ozio deve essere evitato col lavoro perché non potendo più essere luogo di eccellenza non può che essere occasione di bassezza. In questo modo l’uomo viene predisposto ad un’etica del lavoro senza felicità autentica, ad una fuga dall’ozio senza felicità e ad un’ozio-preghiera come speranza di felicità ultraterrena. La felicità non è di questa terra.
Di fronte al nuovo lavoro industriale Marx riscopre l’ozio, ma contro il lavoro, nell’Ideologia tedesca, e nei Grundrisse come tempo liberato dall’ incremento delle forze produttive e dalla conseguente diminuzione del tempo di lavoro necessario. Un ozio quindi come tempo libero dal lavoro, grazie allo sviluppo della scienza-tecnica. In fondo Marx riabilita l’ozio classico proponendone un accesso universale, ovvero la fine dell’ozio come privilegio. Però in questo modo ne ripropone anche il limite della estraneità rispetto al lavoro. Del cristianesimo-moderità Marx accetta l’idea di una dialettica lavoro/ozio e quindi dell’ozio come tempo libero dal lavoro, per cui l’ozio apparterrebbe come per l’antichità ad un mondo altro rispetto a quello del lavoro anche se questa estraneità è, modernamente, un conquista, ovvero una liberazione, dello sviluppo delle forze produttive. Il lavoro appartiene tutto intero al regno della necessità, l’ozio a quello della libertà, quindi è perseguibile solo fuori dal lavoro ed in opposizione al lavoro, che per Marx rimane il lavoro di fabbrica Tuttavia, sia nei Grundrisse sia nella Critica del Programma di Gotha Marx intravede la possibilità di una forma lavoro diversa da quella prodotta dalla grande fabbrica, di un lavoro che non sia “soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita” (Critica Programma di Gotha) e quindi pone la questione, per noi assai attuale, di un nesso e non solo di una opposizione tra lavoro e ozio. Infatti, se il lavoro non è solo “un mezzo di vita”, se esso incorpora sempre di più il general intellect, la conoscenza della società (Grundrisse), esso rivaluta la persona e non solo la fatica del corpo, e quindi si pone in un rapporto diverso con lo sviluppo della persona e la sua felicità come elevazione promesse dall’ozio. La felicità, che nel cristianesimo è ultramondana e solo una promessa conquistabile con la preghiera e la fede, in Marx è una promessa storica perseguibile attraverso quella conoscenza e quella razionalità che negli antichi era, ancorché speculativa, l’anima dell’ozio. L’ozio-preghiera apre al paradiso nell’al di là, il lavoro vieppiù produttivo apre all’ozio di tutti come tempo in cui a ciascuno sarà dato secondo i suoi bisogni. Se si vuole il comunismo di Marx è una versione dell’ozio antico.
Ma non sarà Marx bensì Lafargue che nel pieno del periodo della “centralità operaia” riproporrà con forza, da punto di vista del lavoro, la questione dell’ozio. E lo farà riprendendo l’idea classica dell’ozio contro il lavoro, cioè accettando la dialettica cristiana, ma rovesciandone compiutamente il senso ed il fine. Se l’ozio è in tensione col lavoro, allora a Lafargue appare necessario rifiutare il lavoro per pervenire all’ozio. E questo gli appare possibile perché il tempo di lavoro necessario è sempre minore grazie allo sviluppo delle macchine e solo una subalternità ideologica operaia all’etica del lavoro impedisce al lavoro di liberarsi dalla catene e usufruire dei risultati della tecnologia. Inutile produrre per non poter consumare, è necessario introdurre una razionalità nell’economia in nome dell’emancipazione del proletariato. Lafargue aveva di fronte a sé il lavoro massacrante della fabbrica ottocentesca, un lavoro che la produzione di massa crescente di beni di consumo faceva apparire irrazionale rispetto ai bisogni della popolazione, ovvero razionale solo per l’incremento della ricchezza dei ceti proprietari. L’idea dell’ozio gli appare come il cuore di una ribellione culturale ad una soggezione al capitale ingiustificata dalle necessità della riproduzione materiale che solo il “valore” e l’etica del lavoro sembravano poter mantenere. L’ozio, cioè, come il cuore dell’idea della liberazione del lavoro, come la parola d’ordine di una battaglia di libertà.
L’ozio che nasce come un tempo di vita per attività libere e ricercate per se stesse a spese del lavoro, che poi viene contrapposto al lavoro per essere svalutato, ed infine viene riscoperto per la liberazione del lavoro, è una storia assai interessante che probabilmente non ha terminato di regalare sorprese. Oggi l’ozio non sembra più semplicemente contrapponibile al lavoro. Forse l’epoca di una contrapposizione tra ozio e lavoro in cui entrambi i termini si chiudevano alla felicità e per lo più si aprivano ad infelicità e sofferenze, forse il periodo in cui è possibile pensare ad un tempo di lavoro in cui la persona può rinvenire, come nell’ozio, elementi di libertà e di realizzazione del sé, senza con questo rinunciare ad un tempo specifico di non lavoro, si intravede. E questo appare tanto più necessario quando segmenti di lavori novecenteschi sembrano rinvenire una nuova centralità, segmenti in cui l’ozio appare rinvenibile solo fuori e contro il lavoro. Chissà se dopo un’idea di comunismo che in fondo attinge assai a quella di ozio, dopo un’idea di liberazione dal lavoro in nome dell’ozio, l’ozio non possa essere proclamato come il vero diritto del lavoro.

Giovanni Mari

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