Innovazione e tradizione

22 Agosto 2012 by

Nel mondo del vino il dibattito sull’argomento continua ad essere di grande interesse,  spesso si finisce con l’asserire che: l’innovazione sia responsabile del  tradimento della tradizione. Curiosamente tradizione e tradimento hanno la stessa origine etimologica. Il senso originario era quello di consegnare, quindi la tradizione altro non è, che ciò che ci consegna la storia. Poi, soprattutto in seguito alla consegna di Gesù ai giudici, ma anche ad esempio, il consegnare una città o una bandiera al nemico, l’atto della consegna, il “tradimento” assunse un significato del tutto nuovo e negativo, quello del venir meno alla fiducia. Giocando sulle parole, si potrebbe dire che il tradimento ha tradito la sua etimologia, mentre la tradizione le è rimasta fedele.  Eric HobsbaWan e Terence Ranger nel 1983 pubblicarono “The invention of tradition” nel quale sosostennero che gran parte delle tradizioni che stimiamo antiche, sono di fatto piuttosto recenti e talora completamente inventate. Il  vino rientra del tutto in questo contesto, in particolare: la riscoperta dei vitigni autoctoni e dei relativi vini in purezza è vissuta come profondamente tradizionale. La cosa è data talmente per scontata che sia chi la sostiene, che chi la recepisce la considera vera, ovvia e verosimile, ma se vogliamo guardare più a fondo, si scopre che le cose stanno esattamente al contrario: vini di vitigni autoctoni sono figli delle innovazioni moderne e non bensì  tramandati dalla storia. Possiamo dire che la supposta tradizione non è altro che il tradimento della realtà, come ci viene confermato da moltissimi documenti, che riportiamo solo in minima parte.

Cosimo Trinci nel suo “Trattato delle uve e dei vini” (parte dell’Agricoltore sperimentato, pubblicato una prima volta a Lucca nel 1726 e con molte riedizioni) descrive 31 varietà d’uva e poi da queste 79 vini. Sorprendono alcune cose:

Tutti i 79 vini descritti sono fatti con due, tre ,ma  più spesso con quattro cvarietà d’uve, mai col San Zoveto.

– Il  è descritto come un’uva  “ne fa ogni anno infinitamente moltissima” e più oltre “Il vino fatto di quest’uva non è buono di beversi solo, perché ha sempre della durezza e dell’acido; ma dall’altro canto questa medesima uva è molto stimabile per mescolarla con altri vini piccoli, ordinari, e di pianure, dandoli molto corpo, colore, e sapore”.

Passa più di un secolo e Giovanni Pieri presidente dell’Accademia senese dei Fisiocritici, dopo aver visitato il Sud Africa ed avervi trovato alcune uve toscane come il Gorgottesco, tiene una sua disquisizione nel 1843 (edita da Pandolfo Rossi). Racconta dei suoi esperimenti fatti nella tenuta di Presciano, in un suo latifondo collinare sopra Taverne D’Arbia alle porte di Siena, che aveva messo a disposizione dell’Accademia ” ..a sue spese …per giovare  all’agricoltura senese” tramite “ ..tutti quegli esperimenti che all’Accademia parrà si faccino sull’agricoltura…”.

Dice inoltre che: secondo quello, che allora era definito lo stile moderno, aveva piantato nello stesso filare più varietà di uve, con viti  maritate a testucchi di Gorgottesco, di Canajolo di Procanico, di Sangiovese, di Malvagia, di Marrugà e di Brunello.

Poco oltre, alla metà dell’ottocento si continuavano a piantare più varietà nello stesso filare, come ci conferma anche il sito dei Padelletti, storici produttori montalcinesi, (http://www.padelletti.it/storia_it.html) dove si legge:

“Il vino rosso prodotto dalle sue colline era, come d’uso nel Chianti, una miscela di uve di vari vitigni che fiorivano in epoche diverse, per ridurre i rischi delle gelate tardive e delle grandinate precoci. Il vitigno predominante era il “Sangioveto” o Sangiovese, come oggi è chiamato…”

Se a ciò aggiungiamo quanto previsto dagli articoli 2 e 4 del primo disciplinare del Brunello di Montalcino 28 marzo 1966, che così recitano:

Art 2  “Il vino Brunello di Montalcino deve essere ottenuto dalle uve del vitigno Brunello di Montalcino (Sangiovese grosso) prodotte nell’ambito comunale di Montalcino”

Art. 4 “ E’ ammessa la correzione con mosti e vini provenienti da altre zone nella misura massima del 10%”

Al riguardo, è utilissimo rileggere cosa ci ha recentemente raccontato Ilio Raffaelli, all’epoca Sindaco di Montalcino (lo fu per 20 anni dal 1960 al 1980), in un articolo del Gazzettino e storie del Brunello e di Montalcino N°19 agosto 2008.

“Il disciplinare del 1966 ebbe uno scopo semplice e preciso: dare un carattere tipico ad un vino, il Brunello, che pur avendo ricevuto riconoscimenti ed essendo già ampiamente apprezzato era un vino fatto senza un metodo definito….…pensiamo cosa volesse dire passare dal vino tradizionale, fatto con uve indefinite, giovane acidulo, da vendere in damigiane o fiaschi di varie misure, ad un vino più codificato, invecchiato cinque anni in botte, di almeno dodici gradi e mezzo e venduto in bottiglie bordolesi! Fu una rivoluzione culturale,…”

Solo con il nuovo disciplinare del 1980 si prescrisse per la prima volta l’eclusività del Sangiovese-Brunello ed ovviamente l’esclusione di aggiunte esterne di mosti e vini. Come ben sappiamo la semplice indicazione di un singolo vitigno, impone che sia presente, solo per almeno l’85%.

La tradizione richiedeva forzatamente di mettere insieme più varietà per superare le oggettive difficoltà di vigna e di cantina. Solo la modernità con le accresciute conoscenze e le migliorate tecnologie, ci permette di vinificare in purezza e con successo i vari vitigni.

 

Guido Falgares

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