Unità d’Italia e Federalismo – A che punto siamo
Abbiamo assistito da poco alle manifestazioni in ricordo di quel fatidico 17 marzo 1861, quando il Parlamento Sabaudo, riunito in Palazzo Madama a Torino, proclamò l’unificazione degli stati italiani. E’ stata una importante occasione per ripercorrere l’epopea di quegli anni e soprattutto per ripercorrere senza agiografie o falsità ideologiche la vera storia di quel periodo e soprattutto degli anni che seguirono. Per analizzare anche a che punto siamo arrivati nella riunificazione della nostra Italia, alla luce anche delle tensioni che oggi vengono riproposte da un federalismo usato in funzione secessionistica anziché aggregativa delle diversità. E anche per porre l’interrogativo se può ancora parlarsi di una Italia effettivamente riunita attorno ad una unica bandiera, con una unica identità culturale e comportamentale.
E allora la risposta diviene articolata e anche complessa. Molte sfaccettature vengono alla mente di tutti noi e soprattutto non possiamo nasconderci che si è pubblicizzata oltremodo e anche strumentalizzata una divisione epocale tra una Italia ritenuta efficiente e produttiva e un’altra Italia ritenuta inefficiente e improduttiva, e le cui richieste per ottenere una amministrazione centrale equa nella imposizione come nelle dotazioni, viene addirittura considerata “lamentosa”.
Questa divisione è solo apparente e dovremmo forse meglio parlare di due differenti personalità che sono venute fuori dalla unificazione degli Stati che furono sovrani in Italia fino al 1860.
Ma anche la storia, rinarrata con critico giudizio, ci mostra che l’obiettivo non fu la riunificazione degli stati ma la loro “conquista” da parte di uno degli Stati italiani che seppe molto abilmente capeggiare e strumentalmente utilizzare a proprio vantaggio l’ansia di libertà, repubblicana, che menti colte aggregavano attorno alla grande storia millenaria della penisola italica, in un anelito di riunificazione fisica e culturale. Conquista coloniale e non riunificazione è quello che poi è storicamente veramente successo.
Mi è capitato di incontrare, vari anni fa, il giornalista parlamentare dott. Benso, cui chiesi, nell’approfondire la conoscenza e sapendo la sua ascendenza piemontese, se avesse relazioni con il “Camillo Benso Conte di Cavour”. Mi rispose che il Conte Cavour, come più sinteticamente è passato alla storia, non si sposò e non ebbe figli. Lui gli era però pronipote, da parte del fratello. E volle raccontarmi una storia che non fu scritta sui libri: “A Calatafimi l’esercito borbonico, regolare e di lunghissima tradizione, con molte migliaia di uomini, sentì chiamare la ritirata mentre stava facilmente disperdendo manipoli di guerriglieri folcloristici e senza alcun addestramento e compattezza. I soldati, gli ufficiali insorsero contro il comando. Il Generale che ordinava la ritirata fu inflessibile << Occorre ritirarci, non vedete che stiamo perdendo?!>>.
Quel Generale, apparentemente sconfitto e perdente, conservò invece il grado di Generale nell’esercito sabaudo vincitore …… “. Qui finì il racconto della verità storica come avvenuta davvero, perché conosciuta, vissuta, raccontata in casa dei Conti Benso di Cavour.
Il Sud d’Italia, il settecentenario Regno di Napoli e di Sicilia, il Regno di Federico II “Stupor Mundi”, degli Angiò di Francia, degli Aragonesi, dei Borboni, Vicereame di Spagna, il Regno di Carlo III di Borbone Farnese, grandioso lume della monarchia illuminata e colta del settecento europeo, fu “venduto” sui tavoli delle potenze egemoni Francia e Inghilterra rispetto alla Spagna in decadenza, alla dinastia emergente, pur millenaria, dei Savoia con la quale allearsi e ingraziarsene la sudditanza per il cambiamento dello stutu quo internazionale, a scapito di Russia, Germania e Spagna. Il Sud d’Italia, al momento della “conquista”, era lo Stato Italiano con il PIL pari a due terzi del PIL prodotto da tutti gli altri stati italiani messi assieme; lo stato borbonico era all’avanguardia tecnologica, culturale e sociale. Napoli era l’unica capitale della penisola di respiro europeo.
La prima ferrovia italiana, Napoli-Portici, era stata costruita, già a doppio binario, nel 1842; la seguente massiccia produzione di materiale ferroviario, locomotive e vetture, portò al primo sistema di produzione industriale italiano nel 1853, con 500 dipendenti. Il primo vascello a vapore in Italia fu costruito nei cantieri navali napoletani nel 1818, le costruzioni si susseguirono negli anni seguenti fino alla costruzione del primo bacino di carenaggio d’Italia a Castellammare, con mille dipendenti, nel 1852. Nel 1860, all’arrivo dei Piemontesi era terminata la costruzione della fregata Borbone con l’innovazione tecnologica delle prime propulsioni ad elica (al posto delle pesanti e delicate ruote a pale) ed erano in cantiere in fase di ultimazione la fregata Farnese e la corvetta Etna. Le acciaierie di Calabria, che avevano permesso la costruzione di un audace ponte in ferro sul Garigliano, erano sufficienti per i fabbisogni interni e per l’esportazione di alti prodotti tecnologici verso l’Europa.
Ancor prima, nell’ultimo quarto del ‘700 i primi “esperimenti sociali” per un nuovo modello di lavoro e di rapporto tra lavoro e capitale, al sopravanzare della industrializzazione e delle sue tensioni, erano stati originati e ben sperimentati nelle seterie reali di San Leucio a Caserta con modelli sociali avanzatissimi, in assoluto e non solo per l’epoca, con l’applicazione degli ideali illuministici di uguaglianza dei sessi nel lavoro e nella retribuzione, di valorizzazione del merito, di realizzazione di una fabbrica integrata in un tessuto urbanistico disegnato al servizio di essa con abitazioni assegnate alle famiglie dei lavoratori (si era ancora negli anni prima della Rivoluzione Francese). Le sete di San Leucio erano esportate in tutta Europa; oggi si trovano al Quirinale, in Vaticano, ma anche a Londra in Buchingam Palace e alla Casa Bianca a Washington. Non ultima da ricordare nelle eccellenze produttive e di avanguardia del Sud borbonico è la produzione delle ceramiche della real fabbrica di Capodimonte a Napoli, ottenute con caolino bianchissimo della Calabria, i cui pezzi originali del periodo iniziale durante il regno di Carlo III (1735-1759), per l’accuratezza e la fantasia dei maestri d’arte, hanno valori inestimabili e sono nei musei e nelle collezioni private più raffinate.
I Savoia “dovettero” conquistare il Regno di Napoli per rimettere in sesto i bilanci dello stato sabaudo oramai alla bancarotta per le guerre risorgimentali che avevano sostenuto. Ma già prima dello scoppio delle prime guerre risorgimentali le riserve auree dello Stato Borbonico erano pari a 500 milioni, contro 100 milioni dello Stato Sabaudo. E questo è quanto risulta dalla verità degli archivi storici.
Certo, va riconosciuto storicamente il grande merito dei Savoia e della sapiente opera del loro stratega e statista Cavour, vero alter Rex, stimato, riverito e temuto a Parigi e Londra, ma – a distanza di un secolo e mezzo – occorre serenamente constatare che la distruzione metodica della ricchezza del meridione considerato a livello di colonia, la conseguente derisione delle sue genti, delle sue tradizioni, l’affossamento della sua cultura e il trasferimento sin dagli inizi degli impianti produttivi, sono state una costante da parte della politica nazionale sotto i Savoia che ha preferito non volersi confrontare con una cultura profondamente diversa, diversamente ricca di valori morali, e ha preferito invece esportare e imporre un modello comportamentale e di gestione dello stato di difficile applicazione, come la storia ha subito dimostrato con le forti tensioni sociali sfociate nella guerra civile del primo periodo dopo il 1860, stroncato dalla storia ufficiale come brigantaggio, un falso ideologico oggi svelato. L’orgoglioso e industrioso Sud d’Italia dovette affrontare in massa l’emigrazione di oltre due terzi della sua popolazione verso le Americhe e non solo, per il grave dissesto dell’economia susseguente, fenomeno assolutamente non noto in epoca Borbonica, emigrazione che meglio dovrebbe essere chiamata esilio. Una enorme ricchezza di risorse umane, dalle potenzialità e dalle capacità indiscusse, tanto che seppero affermarsi velocemente pur nei non facili e spesso ostili ambienti esteri. Dispersione e avvilimento di tutti quei valori che avevano reso invece forte e secolare la somma di genti impegnate, industriose, fantasiose, ricche d’intelligenza e dotate di una filosofia comportamentale impressa nel dna sin dalle fiorenti epoche elleniche della Magna Grecia, fiorenti epoche mai interrotte.
E oggi? Oggi dispiace constatare che l’atteggiamento di colonizzazione del Sud d’Italia da parte di quella Italia che – per effetto della sopraesposta depredazione o dispersione di beni materiali e immateriali – è divenuta sempre più dominante nelle decisioni di politica economica del paese, sia giunta inalterata, nella sua aggressione politicamente subdola e persuasiva, sino ai nostri giorni.
Un esempio importante risiede in una mia testimonianza diretta. Ho avuto occasione di entrare e visitare, per un incontro tecnico molto riservato sul finire degli anni ’90, uno dei luoghi produttivi più importanti e simbolici nel Sud. Una fabbrica modernissima nel panorama mondiale, con le più avanzate e costose tecnologie di automazione produttiva. Tutto era automatizzato con elevatissimo grado di affidabilità; i carrelli robotizzati che si muovevano all’interno della smisurata area per trasportate i semilavorati da una stazione di lavorazione alla successiva, avevano occhi meccanici e sistemi sensoriali capaci di fermarsi con garbo se qualcuno della commissione, come è capitato a me, attraversava erroneamente le loro piste invisibili.
Tutto era automatizzato. Peccato che durante la visita, oltre gli eccellenti tecnici e manager del Nord che incontravo, ho avuto modo di vedere in totale solo una decina di lavoratori locali, essenzialmente adibiti a lavori di pulizia. Un enorme flusso di denaro dello Stato, cioè di tutti noi, compresi i lavoratori del Sud, era stato convogliato sullo stabilimento produttivo, creando una enorme capacità produttiva con elevatissimo valore aggiunto, ma praticamente nullo era stato il vantaggio vero, in forza lavoro, in indotto produttivo, in contribuzione reddituale sulle finanze locali, da parte della “furbissima” azienda del Nord, di nome internazionale, che era venuta al Sud, ancora una volta, con la finalità vorace di depredare la colonia. Tutto venduto, ai politici acquiescenti e ai media “comperati”, come un importante e determinante investimento al Sud. Tutto pagato dallo Stato; tutti i guadagni all’azienda, peraltro privatissima, nessuno o pochissimi vantaggi al Sud, che pure aveva contribuito con non poche risorse a pagare l’investimento.
L’episodio è stato vissuto pochi anni fa e ancora è lì, con il suo carico di beffa e di amarezza. Come tanti altri similari che hanno contraddistinto la lunga fase di funzionamento della Cassa per il Mezzogiorno.
Oggi possiamo dire di aver superato questa logica perversa e depredatrice? Il dibattito di oggi continua nell’onda esponendoci ad un federalismo visto in forma prevalentemente secessionistica. Nessun miglior momento per creare invece un federalismo in forma aggregativa. Italia unica, dettata dalla sua geografia, come somma confederale di tante realtà, storie, costumi, lingue, tutto assolutamente diverso. Nella nostra grande e bella Italia non c’è solo una distinzione macroscopica tra Nord e Sud, ma c’è una differenza tra regione e regione, se non addirittura tra provincia e provincia e anche tra città e città. Milano non è Torino, ma anche Milano e Torino non sono Venezia. C’è un abisso di tradizioni, lingua e storia tra Piemonte e la vicina Lombardia, tra Piemonte e il Veneto. Liguria non è Piemonte, Romagna non è Liguria, e così via. Puglia non è Sicilia e Campania non è Calabria né è Basilicata. Ma anche, nella stessa regione, Siena non è Firenze, e Prato, alle porte di Firenze, non è Firenze. Ma anche Palermo non è Messina; Catania non è la vicina Messina. E così via.
L’Italia nelle sue molteplici differenza. Questa è la bellezza e la forza del nostro Grande Paese. L’Italia dei Cento Comuni, ma sempre Italia. L’Italia, scrivendo su questa rivista, anche delle sue molteplici cromaticità culinarie: quale paese può vantare tanta cultura e tante eccellenti differenze anche nelle tradizioni enogastronomiche? I mille piatti di straordinario stupore offerti da nord a sud, i mille vini dalle sensazionali inebrianti personalità, se pure non siano ben più di mille e mille.
L’unità d’Italia deve proprio derivare da questo meraviglioso sentimento di appartenenza alla nostra grande e differenziata storia, che non ci ha permesso nel tempo e non ci permette ancora ora di unirci facilmente, ma, ringraziando Cavour, i grandi pensatori dell’ottocento, e l’opera indubitabile dei Savoia, per averci dato la unitarietà politica della nazione, dobbiamo ancora riflettere sul grande sacrificio che è stato richiesto al Sud per realizzare l’unione. Sud che ha ancora “un grido di dolore” e merita quel risarcimento che apparentemente gli è stato erogato con le mille leggi a favore, tutti aiuti che poi sono stati sostanzialmente drenati verso le economie del Nord. Occorre finalmente, attraverso un federalismo del Sud forte e lungimirante, attuare politiche di investimento nelle infrastrutture e nelle attività produttive, nella formazione delle risorse umane, nello stimolo e aiuto della imprenditorialità giovanile.
Solo il successo di una efficace politica economica nel Sud, da attuare velocemente e massicciamente al pari di quanto è avvenuto per la riunificazione della Germania dopo la caduta del muro, potrà condurre ad una nazione veramente più forte economicamente e internazionalmente, e alla vera Italia unita.